_e intorno tutto sembra in disordine, smarrito nei rintocchi del vento che con un riflesso bianco mi richiama a se come fa la sera prima che cada, prima che il brusio dell’assenza avanzi ed io torni a vestire il senso smarrito di tutte le cose
fuoco freddo / disarmonico rogo irrisolta fiamma sul crepuscolo dell’assenza. graffio innevato sul volto asciutto, lingua secca a sfilare infantili dialoghi.
il tuo sangue è un peso immane da portare.
tutto è a capo. il ricordo è un timbro di voce muto che attraversa il pianto come latte versato in questa oscillazione di vita ripiegata fra tempo e resa, scorcio e luce avversa. mentre tutto è a capo, nell’ultima misura che ho di te,secche le pupille si assentano in una rabbia che torna a battere in gola il mio eterno tacere. mai multipla dei miei anni fu la pena. mai tramite fra cielo e terra fu l’anima tua. mai baricentro ad allungarsi sul ponte della mancanza mi fu il giorno dell’addio.
mi arrendo a questi giorni scrinteriati con i capelli spettinati e l’insufficienza degli occhi a mirare curiosità lontane. mi arrendo all’impossibilità di risorgere come un inverno involontario, alle parole che diventano circostanza e note perse fra i libri impolverati. mi affaccio a viso nudo nel cavo delle mani con un mezzo pensiero che torna e della luce e il buio ne fa il suo equilibrio, sgualcito d’inarrestabile vita e immortale poesia.
pensavo al mio corpo, a come è riuscuito a mantenersi in equilibrio fra contraccolpi di questi anni, a come è riuscito a mantenersi in piedi fra le selve oscure, all’abilità del mio petto a non scoppiare. pensavo all’involontarietà della mia vita, alla materia casuale che si è fatto postuma sopravvivenza, valore che come un’ultima bugia si è tagliata palmo palmo restando penitenza pagata senza funebrità e conseguenza. pensavo a quanto è riuscita a refrigerarsi l’anima mia per sopportarsi e trasportare la quantità di pena, preghiera asfissiante come posa fra le mura, corale trauma raggiunto poi in preghiera.
c’è qualcosa di fortemente beato nel dimenarmi fra le ceneri /ripiego nella preghiera ma rinnego ogni somma benedizione/
.mi basterebbe una sola caduta nella notte per non sentirne la superficialità della terra fin sotto la pelle resa superflua.
/scorcio spigoloso al risveglio fino alle assenze oscillanti e liquide fra una vertebra e l’altra/
.mi basterebbe sentirmi in ripida ascesa una traccia spaiata ad un bivio una bianca sovraesposizione di condensa che nella sua caduta finale perde il suo andare.
è un eterno sepolcro questo oscillare nella notte
un grido che si fa chiodo nella preghiera sospesa
nel disgusto dell’aurora mancante
sono una vittima terrena , un gelo .
mi svuoto ogni volta ma ritorno ammalata
di questo incombente dolore
di questa pelle nera che tracima pena
cenere nera , immediata nella colpa .
fra le mani ho nascosto un rituale
nel petto un requiem da dimenticare
nell’anima un rantolante oblio da adagiare
è un eterno sconfinare questo oscillare nella vita
una commozione che non appartiene al cuore
un intollerabile conseguenza che non fa altro che ripetersi
come lo sguardo rosso di un silenzio che si fa carne .
rimbomba nell’interiore un nome secondario
una equazione d’amore estrema che si esterna
sulla pelle arrancante e fragile , un gelo .
è un eterno purgatorio questo assolato cortile un trionfo di voci che uccidono , come le risa negli arpeggi di un delirio che condanna armonicamente come la salvezza mentre pulso ancora , immediata nella colpa .
fammi entrare nel tuo viaggio dai sentieri aperti
in cui acerba resta l’anima / intatta
come nella consapevolezza mortale della complicità
fammi essere il tuo luogo d’ombra
casa dai tetti sicuri dove non entra il sole
e il silenzio è l’unica prospettiva a vincere sulla ragione
camminiamo insieme fino all’imbrunire lungo il sentiero dell’anima lungo i campi dove si infittisce l’animo
fammi tremare / scolpiscimi senza tregua sgualciscimi il cuore e rimettilo a posto accanto al tuo dove la solitudine è un covo calmo un cespuglio di cui cibarsi
fammi tremare / rendimi imprevedibile spalancami l’anima come fanno le prime luci dell’alba abbagliami dell’eternità assoluta dei tuoi occhi e stupiscimi con una carezza crudele che non lascia segno
aggiungo la notte all’avanzare di un’altra notte una selvatica conseguenza imperfetta un raccapricciante esigere di luna che specula la mia volontà oltre di buio , oltre ogni accadere mentre lascio le mani nude e l’anima esposta , a te .
aggiungo il tremore al battito del cuore l’ossigeno dei discorsi fatti e la lingua unta di ogni altro bacio mancato mentre la possibilità del ricordo si lega con un orlo d’amianto sulla superficie piuttosto che alla memoria fatta di verità diverse , le tue .
aggiungo il potere a questo vizio di perdere il dominio alla cessata volontà aggiungo il mio corpo al tuo e in ogni lembo mi estraggo carne viva e impudica con una sola possibilità di sopravvivenza che si emette dal tuo grido al mio pianto , per noi .
l’anima mia è in piena rivolta
vorrei poter essere natura non natura
un lirismo artificiale e spietato
necessario al mio racconto .
vorrei perderne il comando
e risultare sconfitta
impassibile dinanzi
a questa vita che mi passa accanto
senza suono
che mi dorme addosso
che mi spezza le braccia
che mi lascia senza sonno .
l’anima mia è pronta a farmi fuori
a riportarmi nei luoghi dell’altrove
dove la magnificenza irreale
di questa esistenza
mi darà tregua e parole dure .
diverrò mortale , dunque infallibile
forse .
aggrappata al senso di una notte cava,loquace quanto basta per zittire il silenzio in quest’Abazia,nutro [spalancandomi il ventre di una fame dal nome vizioso] l’assoluta tenebra che dalla mia stessa riproduzione vince. aggrappata e mai stanca al senso esplicito di questa distruzione, mi rendo carnefice del mio stesso decantato amore, e fra ritratti di volti celesti, ombre assurde prodigiose nei baci, bocche stridenti come arpie fiere, dilato il tempo come pelle d’oblio assiderato dove non mi capacito d’averne ancora, sfibrata come una vesta spaccata. proiettata verso un inferno che alla mia anima appartiene resto dunque ancora qui,sfinita e nuda, nella proiezione più astrale che ci possa essere della dannazione fatta persona .
.cosa ne farò della mia morte.
a fatica sbavo per questa vita
a fatica mi concedo ancora ad essa
.semmai ne fossi certa. berrei dalla mia stessa condensa per riportarmi in un luogo improprio, per sospirare ancora fra questi petali che voi umani tanto amate .
.semmai ne fossi certa. risorgerei anch’io
petalo infetto e linfa vaporosa .
dolciastre follie è cosi irreale il tributo che dono alla pena . ho battezzato le ipocondrie con malsane idolatrie nulla può lenire il fuoco delle nebulose malinconie. ho quanto basta di piena sul cuore per serigrafare gli argini di ogni singolo dolore o recondita forma di polvere e sinfonia .
c’è sempre un punto di rottura nell’angolo del pensiero , una fragile scheggia ramata che si fa anomalia fra i ricordi . è da lontano che cerco la serenità dei passi , è nell’estrarre aculei di memorie che mi accorgo di essere pietra e poi rantolo d’aria . ho assunto forme d’onda e contorni di aridità nell’eterno bivio fra l’esistere sommesso e la reale condizione , ma non sempre riesco a trattenere la voce della notte che mi rinchiude nella cava dell’anima . torno sempre al punto di rottura , fra le lande silenziose della solitudine e il tormento sanguinante del cuore . è come un vizio il dolore . un nastro di seta in endovena .
perdere il baricentro
e restare in bilico
sulla dispersione di ogni senso
mentre il testimone di questo tempo
passa al fruscio del vento
_ ed io nel mentre invento un tempo
in cui versa il bianco di ogni cosa
spingo l’intenzione del nero
sul corpo che resta
in questa ultima occasione
che mi anticipa nell’inverno
ingrato di ogni altro dolore