_e intorno tutto sembra in disordine, smarrito nei rintocchi del vento che con un riflesso bianco mi richiama a se come fa la sera prima che cada, prima che il brusio dell’assenza avanzi ed io torni a vestire il senso smarrito di tutte le cose
nella completa trasparenza, nell’assoluto chiarore. non esigo altro che la tua luce in me, interiore, nell’assolutezza del profondo che si ferma e resta a guardare. ed io mi fermo e come il tempo affondo, e non cerco altra materia per la risalita se non nell’insondabile essenza che è nella somma del mio io nell’esplicito tuo con chiarore e fulgore.
posandomi spoglia sull’alone inutile della memoria breve. nel ripormi come perimetro di luce assorbo l’assoluto di un giorno che si tramanda sulle palpebre asciutte senza profondità nello schiudersi.
ampia e scorrevole filtro la polvere sulla pelle grezza. soccombo al rifiuto del buio smorzato e corrotta nelle non più amabili vesti la mia ombra ellitica e sterminata conserva l’audacia che fu un tempo ghigno del cielo.
il giorno e la sua fine, [ nel moltiplicare luci e spettri indistinti ] come un urlo mi attraversa il disordine degli occhi, come un filo rosso sangue che si incastra nel profondo del destino. il giorno e la sua fine è un pianto di crisantemi un fruscio gelido senza contorni, uno squarcio d’ombra e miele che gocciola sul petto come un canto, un inno nel suo inesatto giorno e la sua fine a sparpagliare fiati prima che si riconceda all’inverno e al suo lamento che come un urlo, [ che mi attraversa ] maturo fra i denti.
nel logorio restante del tempo, intermezzo all’esistenza, si sfalda come fame sulla lingua asciutta, malizia che fu lama a consumare fame, e nel dilagare di rantoli e spine a pungere, le ore_ madide a fendere come brama irrorata_ mi attraversano roventi e trasversali fino a risorgere cariche ed aride come balsamo di catrame sulla schiena a sciabordare.
Io le conosco le tue mani a millantare certezza, carezze nella fretta del tempo che ti sta stretto. Io li conosco i movimenti del tuo corpo, imprevisti e ferrosi. Le strette anemiche, impreviste, i baci di sale, impazienti, la lingua tagliente, senza narrazione. Nella tua ombra a mozzare la mia c’è sempre un’argine che cola a picco. Nei tuoi occhi a sostare in prossimità dei miei c’è sempre un’inezia ad invasare la mia.
negli sconfinati giochi d’ampiezza in possibili labirinti. in isole di parole perdute e àncore lasciate andare. nella vaghezza del cercarsi nella tensione dell’amore, riemergendo ogni volta fra le rivelazioni dell’essenza, nel germinare come fuochi e poi congedarsi all’aria, Noi, nascosti dentro schegge di comete in spazi indefiniti, luci capovolte e misteriose dalle forme nuove, ci lasciamo andare fin dove d’inchiostro si scrive il mare, inabissati nella stessa voce orfani di maestrale.
a misurare il passo verso la paura ci pensa il verbo con il suo tormento che si espande nel suo infinito andare in mucchi d’ombre e fronde d’innaturale cantico.
[r_esisto in questo tempo recesso a sfatarmi fra i miraggi r_esisto al tepore anfratto di un buio essenziale]
a misurare il passo verso la paura ci pensa la terra oscura dove svapora l’anima mia lasciata alla trama che morde e attraversa il comandamento di cui persi la dinastica Omelìa
ancora una volta la luce. ancora una volta a lasciare tracce d’argilla sul mio corpo interrotto sono i morsi della tua fame, sete a rivitalizzare la pelle, a scuotere i reni dalla corteccia di desiderio nell’inevitabile segmento del dono dell’unione. è la memoria che all’alba si modella come un pozzo di tenebra a riavvolgere le tue mani, le tue dita in un arpeggio di desiderio infinito.
[e resto in bilico
nel mentre divento pane per la tua bocca,
poi sale, frutto di sangue,
artiglio intorpidito
che lascia un graffio errante]
ancora una volta è la luce a darmi sollievo, a inzupparmi di respiro, a sfibrarmi di peso, ad invadermi come un fiume di mendicante piena, incauto, interrotto solo dal sospiro che avverto tagliente sul petto come un battito clandestino, un grido di famelico oblio.
volevo renderti bianco un libro aperto , un’anima senza parola chiave .
volevo renderti la mia di parola nuda , disconosciuta , un ticchettio nelle ore ferme .
volevo renderti il mio mese preferito una risata capovolta , un’affinità senza fine . volevo renderti pace dopo la guerra , una persona combattente , vincente accanto alle mie guerre perse .
volevo renderti il mio muro del pianto , casa dalle finestre aperte , cortile con gli alberi sempre in fiore .
volevo renderti prezioso fra le cose smesse un respiro , un fiato appena , una briciola di vita , il verbo infinito nella bocca mia .
c’è qualcosa di fortemente beato nel dimenarmi fra le ceneri /ripiego nella preghiera ma rinnego ogni somma benedizione/
.mi basterebbe una sola caduta nella notte per non sentirne la superficialità della terra fin sotto la pelle resa superflua.
/scorcio spigoloso al risveglio fino alle assenze oscillanti e liquide fra una vertebra e l’altra/
.mi basterebbe sentirmi in ripida ascesa una traccia spaiata ad un bivio una bianca sovraesposizione di condensa che nella sua caduta finale perde il suo andare.